Nel recente libro Dove ricomincia la città, in cui racconta esperienze di autorganizzazione nelle città italiane, l’autore Francesco Erbani dichiara di aver voluto esercitare il ruolo di cronista, senza proporre alcuna teoria (https://viaitri.blog/2021/11/22/dove-ricomincia-la-citta/).
Carlo Cellamare, docente di urbanistica nella facoltà di Ingegneria dell’università La Sapienza di Roma, studioso dei i rapporti tra urbanistica e vita quotidiana, ci offre invece sullo stesso tema un libro denso di riflessioni teoriche.
In Città fai-da-te Cellamare descrive e commenta i processi di riappropiazione dei luoghi a Roma, città che «per il suo essere ponte tra una cultura occidentale e una cultura mediterranea, ma anche perchè ha sempre registrato nelle sua storia grandi difficoltà di governo delle sviluppo urbano» offre moltissimi esempi di questi processi «minuti o ampiamente organizzati e strutturati, legali o illegali, totalmente autorganizzati o esito di contrattazione con l’amministrazione pubblica o con altri soggetti».
Il primo capitolo del libro è dedicato all’Autorganizzazione nella città contemporanea.
Cellamare individua tre diverse modalità in cui gli abitanti delle città danno vita a pratiche alternative: pratiche urbane e progettualità latenti, appropriazione della città e produzione di urbanità, protagonismo sociale e autorganizzazione.
Pratiche urbane e progettualità latenti. In questo caso si tratta di una ricerca di autonomia nell’uso quotidiano degli spazi urbani, cercando di superare i condizionamenti definiti da chi pianifica e realizza la città. Qui l’autore richiama l’invenzione del quotidiano di Michel de Certau, evidenziando che:
«Le pratiche disegnano la città, intessono di relazioni (prima di tutto sociali) la fisicità della città, creano valori simbolici, danno senso ai luoghi, costituiscono tattiche di risposta alle dinamiche delle politiche urbane, esprimendo spesso il tentativo di determinare uno scarto rispetto ai comportamenti e agli usi predefiniti»
Appropriazione della città e produzione di urbanità. «Quando le pratiche urbane diventano collettive e organizzate, si traducono in forma strutturate di appropriazione della città.» Si tratta di «pratiche e processi che spesso restituiscono al ciclo di vita della città alcuni scarti urbani, aree ed edifici abbandonati o dismessi»
«L’appropriazione rimanda a una dimensione … di sottrazione dei beni urbani a usi, o anche a proprietà, predefiniti o consolidati, per reimmeterli nelle possibilità di uso diretto, ed eventualmente alternativo o non previsto, degli abitanti; ma soprattutto rimanda a una dimensione immateriale di sottrazione dei beni urbani a logiche di dominio o di utilizzazione economica, o comunque eteordirette, per sostenere una dimensione dei valori d’uso piuttosto che del valore di scambio, reimmetendoli in processi di attribuzione di valori sociali e simbolici condivisi.» … «Lo spazio è veramente il luogo dove si giocano ogni giorno le relazioni di potere, e diventa campo di una quotidiana azione di autonomizzazione».
Protagonismo sociale e autorganizzazione. «I processi di riappropriazione e risignificazione della città possono essere supportati da forme di autorganizzazione, ovvero modalità strutturate e autoprodotte di organizzazione sociale finalizzate più o meno intenzionalmente alla costruzione e alla gestione dello spazio e delle attività che vi si svolgono».
Roma offre monti esempi di queste forme di protagonismo sociale, tanto da poter essere definita «città autoprodotta».
I processi di protagonismo e autorganizzazione, oltre a risolvere problemi concreti, «permettono di attribuire valori e significati sociali, culturali e simbolici più ricchi e complessi» e sollecitano «un ripensamento del senso e del ruolo delle istituzioni».
A volte, al di là delle intenzioni dei loro protagonisti, in un contesto di riduzione della presenza delle politica e delle istituzioni sui territori, le pratiche di autorganizzazione, , «assumono, spesso per necessità, un carattere sostitutivo di una carenza della pubblica amministrazione e diventano una forma surrettizia di fornitura di servizi e quindi di copertura delle falle sempre più ampie che si aprono nel welfare state.»
Le nuove forme di autorganizzazione, afferma Cellamare, rappresentano una risposta alla ristrutturazione del capitalismo, in cui l’ambito dello sfruttamento non è circoscritto al lavoro, ma tutti gli aspetti della vita, della produzione e della riproduzione sociale sono funzionalizzati al mercato (per esempio le proprietà immobiliari sono valorizzate con i processi di gentrificazione, che si fondano sulla socialità e il tempo libero). «Il luogo del confronto e del conflitto diventa quindi l’intera città, la metropoli. Le forme di resistenza si spostano dalla sola dimensione produttiva alla vita quotidiana tutta e alle forme della socialità.»
Roma fa parte di un contesto mediterraneo in cui il «fai-da-te» rappresenta una tradizione molto consolidata. Particolarmente significativo è stato il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che ha devastato il territorio ma ha rappresentato un’importante risposta alla questione abitativa. Il caso di Roma quindi permette di «prefigurare quali potrebbero essere gli scenari futuri di un processo globale di trasformazione della società in cui lo Stato arretra e lascia spazio, in questo modo, sia alle forze sociali che, soprattutto, alle forze di mercato; situazione verso le quali si vorrebbe tendere in tanti contesti del Nord globale.»
Tre fattori caratterizzano in particolare il contesto di Roma e ne fanno un punto di osservazione di quello che potrebbe succedere in futuro nelle grandi città occidentali:
- I soggetti sostitutivi del pubblico che intervengono per fare fronte all’arretramento del welfare state, come le fondazioni bancarie, a Roma sono meno consistenti e capaci rispetto ad altre città, come per esempio Milano.
- A Roma le istituzioni locali sono più deboli e con una “tendenza collusiva”.
- Nella città è particolarmente «diffusa e consolidata la presenza di culture e di esperienze sociali alternative» (1)
Cellamare propone qundi di guardare con attenzione le esperienze di autorganizzazione a Roma, come faceva Gramsci con i consigli di fabbrica. Particolarmente interessanti a suo avviso sono le pratiche illegali, perchè «spostano più avanti i confini del possibile, del consentito».
Il capitolo II presenta una rassegna di Esperienze di autorganizzazione nella Città eterna, che parte dagli Spazi verdi autogestiti, prosegue con le Città immaginate (luoghi dove è stato possibile realizzare pezzi della città desiderata), I mondi alternativi del lavoro e dei servizi al territorio, Le occupazioni a scopo abitativo, I quartieri di edilizia residenziale pubblica, La riqualificazione delle periferie attraverso lo sviluppo locale, le Capacità di autogestione dei comitati di quartiere, per finire con L’abusivismo e i fenomeni di autorecupero. Cellamare prende decisamente le distanze dalla deriva legalitaria e securitaria che vorrebbe ricondurre molte pratiche a un mero problema di ordine pubblico, ma non nasconde le criticità delle pratiche di autorganizzazione.
Delle esperienze presentate nel libro, qui ne richiamo solo una, per la sua particolare complessità, Spintime. Si tratta di un edificio distante poche centinaia di metri dalla cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, che ospitava la sede di un ente previdenziale, l’INPDAP. Oggi rappresenta «una città in piccolo».
«Al suo interno, oltre ai tanti appartamenti, ai piani inferiori vi sono grandi spazi, tra cui una taverna e un grandioso auditorium, dove si svolgono molti eventi e attività, aperti ell’esterno o ospitati e organizzati da altri compresi concerti congressi, …, presentazioni di libri, … sala musica ecc. … Moltissime sono le attività a scopo sociale organizzate insieme al territorio, ai comitati di quartiere, alle cooperative sociali, persino dalla vicina parrocchia, in un rapporto molto stretto e collaborativo. Si tratta di servizi che vanno dall’accoglienza ai corsi di lingue per immigrati, ai doposcuola per bambini, alla scuola di danza e musica.
Un fitto scambio e una lunga fase di negoziazione con le amministrazioni comunale e regionale … hanno aperto alla possibilità di trasformare questa occupazione «illegale» in un primo grande laboratorio di riutilizzazione degli edifici dismessi a fini abitativi … L’opposizione del Comune di Roma e la debolezza politica della Regone … hanno fatto fallire tale ipotesi. … questo ha risparmiato gli occupanti di dovere affrontare un delicato percorso di istituzionalizzaione … però, li lascia nel mirino degli sgombri.»
L’esperienza di Spintime ebbe una particolare visibilità quando, nel 2019, in un momento in cui il Ministero dell’interno teneva sotto forte pressione le occupazioni, fu tagliata all’edificio l’energia elettrica e intervenne personalmente per ripristinarla in modo illegale l’elemosiniere del papa, cardinale Konrad Krajewski.
Il capitolo III è dedicato alle Motivazioni.
Cellamare individua tre categorie di motivazioni, dietro le esperienze di autorganizzazione.
In alcuni casi si tratta di risposte a «una necessità pratica, a un bisogno personale e sociale condiviso», che riguarda spesso la casa e il lavoro, ma anche esigenze di servizi, di verde pubblico, di spazi per attività sociali e culturali.
In altre situazione troviamo «una motivazione, molto forte, di carattere più propriamente politico», come quella di contrastare azioni speculative, preservare l’uso pubblico di alcuni beni, «propore modelli di sviluppo alternativi … dando avvio a percorsi di sperimentazione». .. «Si tratta di qualcosa di profondo … della ri-costruzione di unja politica quando questa non c’è più, del recupero di un discorso sui valori al di fuori della logica smplice dell’ideologia».
Il terzo complesso di motivazioni si fonda su «una dimensione personale che non è assolutamente da sottovalutare». In questo caso «la politica viene costruita con la propria vita … i valori in cui si crede diventano concretezza nelle scelte di vita».
Sia nell’agire delle singole persone, sia in quello dei gruppi, emerge «un bisogno di urbanità e di qualità della vita urbana … che si radica nel bisogno di una qualità dell’abitare intesa in termini di possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di percepirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città … di dare forma a una progettualità collettiva». Si tratta, penso, di quella cosa che A. Hirshman chiama “felicità pubblica”, un tempo perseguita prevalentemente partecipando alla vita dei partiti politici.
A fronte di queste motivazioni, non risulterebbe soddisfacente una risposta della pubblica amministrazione che si presentasse come
«… una risposta di legalità, di servizio dovuto, in una logica stretta di recupero di spazio da parte del soggetto pubblico, che non raccoglie e non si apre alla ricchezza delle sollecitazioni costruttive e propositive e alla complessità delle esperienze sociali.» perchè «i processi e le pratiche di ri-appropriazione rappresentano un segno della vitalità della città e una risposta all’alienazione che caratterizza non solo il lavoro, ma le stesse forma di urbanità …».
Ma alla base delle esperienze di autorganizzazione c’è anche, secondo Cellamare, la motivazione più profonda di «riconoscersi nel bisogno degli altri, dell’Altro», di rompere lo specchio sociale «che restituisce persone falsamente realizzate unicamente attraverso il puro godimento immediato, soprattutto attraverso il consumo».
In uno spazio urbano generato da processi eterodiretti difficili da ribaltare, le esperienze di autorganizzazione cercano di definire, sui territori, un’organizzazione sociale il più possibile autonoma.
Nel capitolo IV Cellamare discute la possibilità e le implicazioni di Fare città attraverso l’autorganizzazione, considerato che intervengono nelle realizzazione della città diversi soggetti attivi, oltre alle istituzioni e alle forze economiche.
Lo Stato non riesce più a rappresentare adeguatamento l’interesse pubblico, perchè le istituzioni lasciano che l’economico prevalga sul politico. Le pratiche di autorganizzazione rappresentano perciò un «pubblico» autoprodotto. Questo non è però sempre scontato, perchè in alcuni casi, per esempio in alcuni quartieri costruiti illegalmente, l’autorganizzazione assume un carattere proprietario e privatistico, assumendo come obiettivo la tutela del privato a scapito del pubblico.
All’informale nelle città, in ogni caso, non può essere attribuito solo un significato di marginalità o di supplenza alle carenze dello stato e del mercato.
«Per alcuni la città «informale» è la città «in formazione», ovvero una «non-città» o una città del degrado, o una città targata negativamente, incompiuta, mancante.
È piuttosto una città della potenzialità, una città allo stato nascente, e per questo non ancora imbrigliata nelle maglie delle istituzioni o dei modelli sociali ed economici cosolidati e prevalenti»
L’informale può essere «il luogo della sofferenza e della disperazione», come nel caso delle baraccopoli periodicamente rase al suolo dalle ruspe, il luogo dei conflitti o anche il «luogo dell’ordinario, dove si sviluppano le attività e le relazioni della vita quotidiana».
Nell’ambito dell’informale vengono messo in discussione le categorie di «lecito» e «illecito», come quelle di «legale» e «illegale», che non coincidono con formale e informale. Alcuni comportamenti pienamente legali possono essere considerati ingiusti e quindi illeciti a livello sociale, per esempio la privatizzazione degli spazi pubblici. Altre volte comportamenti illegali, come le occupazioni a fine abitativo, sono illegali ma possono dare risposta a esigenze legittime a livello sociale, «ciò porta … a interrogarsi su quali occupazioni possano essere considerate lecite o meno, cioè rispondano a un’esigenza personale e sociale, o se siano invece dettate da interessi privati». L’illegale si presenta quindi come il campo della sperimentazione, dove
«L’autorganizzazione costituisce oggi la ricerca di un’alternativa a un mondo istituzionale, a un patrimonio di idee e modelli che si sono svuotati di senso, che non costituiscono più un valore di riferimento. Per questo fa più paura, e da un altro punto di vista è sentita come una minaccia, tanto da essere contrastata e perseguita, attraverso le vie legali o quelle violente».
L’aspetto più interessante dell’autorganizzazione, secondo Cellamare, è
«un insieme importante di esperienze che costruisce nuove soggettualità politiche e sociali, che lavora sulla costruzione di nuove culture politiche, che usa il conflitto, che sperimenta, che cerca la concretezza, che lavora sul tema delle istituzioni, che interessa reti sociali e territoriali, che ha un’intenzionalità politica, che vuole dare vita a un modello alternativo (con modalità diverse).»
Si tratta di mettere in pratica una «democrazia profonda» come descritta da Appadurai(2) che apre alla consuetudine di «immaginare delle possibilità anzichè a quella di arrendersi alle probabilità di cambiamenti imposti dall’esterno».
Queste esperienze aprono la possibilità di rivitalizzare il politico «da un livello più basale, che affonda le radici nel sociale, nella dinamica delle relazioni tra persone che si instaurano nella convivenza tra diversi».
Un aspetto centrale nelle esperienze di autorganizzazione è «il recupero e riuso delle aree e degli edifici abbandonati» con pratiche che hanno il valore di rispondere a esigenze di rilevanza sociale, insieme a quello di ricostruire legami, anche affettivi, con i luoghi e tra le persone. In queste esperienze inoltre si osserva una forte attenzione alla sostenibilità ambientale, che porta a sperimentare economie alternative.
Nel V e ultimo capitolo, Quale futuro, Cellamare affronta le prospettive dell’autorganizzazione, che consdera <<un fatto strutturale della società contemporanea>>
Le pratiche di autorganizzazione hanno stimolato la nascita di un dibattito nell’ambito della giurisprudenza, per cui l’informalità potrebbe essere generatrice di diritto. Secondo un saggio di Fabio Giglioni citato da Cellamare, dopo l’affermazione degli stati nazionali
«Le città assorbite negli ordinamenti statuali sono state destinate all’esercizio di funzioni marginali e indifferenziate dei compiti pubblici statuali in una condizione di stratta strumentalità. La crescente affermazione delle relazioni informali sta ora rimettendo in discussione questo esito e può far riscoprire l’altra natura delle città, come essere creature delle comunità».
Al governo delle città, scrive a conclusione del libro Cellamare,
«è chiesto di saper sviluppare percorsi costruttivi con le pratiche di autorganizzazione che realizzano un’idea alternativa e innovativa di città, nel riconoscimento che senza di esse non sarebbe possibile risolvere molti problemi sui territori e anzi che i progetti che propongono sono capaci di sviluppare attività produttive, portare servizi sui territori, riqualificare il proprio contesto di vita, seguire criteri ndi sostenibilità e contemporaneamente coinvolgere gli abitanti, creare significati, responsabilizzare, costruire relazioni sui territori. Al governo delle città viene chiesto di condividere il potere per uscire dal vicolo cieco della politica, ridurre la distanza tra le istituzioni e le realtà locali, recuperare visione del futuro e fiducia da parte degli abitanti. ….
…. Nei confronti delle esperienze illegali significa combinare un’azione di valorizzazione e sostegno delle attività con percorsi di emersione, da una parte, e di revisione degli apparati normativi, dall’altra. Bisogna pensare a una pratica capace di dialogare con l’informale. …
… Si tratta quindi di sviluppare «politiche per l’autorganizzazione», ovvero valorizzare le energie e le progettualità latenti»
Chi governa le città, e Roma in particolare, dovrebbe andare oltre gli approcci consolidati della politica verso le esperienze informali, reprimere con la forza o cercare di accettivarsi i protagonisti con pratiche più o meno clientelari. Sarebbe necessario imparare ad ascoltare con la necesaria attenzone, per valorizzare le potenzialità dell’autorganizzazione di fornire risposte a esigenze sociali e di innovazione.
Carlo Cellamare, Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana, Donzelli, 2019.
L’immagine in evidenza rappresenta una parte del giardino presso il lago dell’ex Snia, a largo Preneste, un aspetto delle città immaginate.
(1) Un’ampia rassegna è rappresentata nel libro Guida alla Roma ribelle, di R. Mordenti, V. Mordenti, L. Sansonetti, G. Santoro, Voland, 2013.
(2) «La democrazia profonda è una democrazia delle sofferenza e della fiducia; del lavoro e della difesa dello slum (dalla demolizione e dal trasferimento); dei microprestiti e delle restituzioni; e, soprattutto, del quotidiano riconoscimento, in ogni attività organizzata di tali comunità, che le donne costituiscono la sorgente più vitale di continuità, solidarietà, pazienza e saggezza nella lotta per il mantenimento della sicurezza giornaliera, di fronte alle continue emergenze e minacce provenienti da varie parti» (Appadurai, 2014, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, citato da Cellamare.)